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giovedì 30 aprile 2015

Cenerentola Trailer Ufficiale Italiano (2015) - Lily James, Richard Madd...

Review Cenerentola





Cenerentola, dopo 65 anni, il lungometraggio live-action diretto da Kenneth Branagh ispirato alla classica fiaba, porta in vita le immagini senza tempo del capolavoro d’animazione Disney del 1950. Qui la recensione e lo speciale sui costumi e la scenografia


Bisognerà attendere fino al 12 Marzo per vederlo in sala, ma oggi Style & Fashion ha visto in anteprima il nuovo e attesissimo film Disney Cenerentola, dopo 65 anni, il lungometraggio live-action diretto da Kenneth Branagh ispirato alla classica fiaba, porta in vita le immagini senza tempo del capolavoro d’animazione Disney del 1950 e i suoi personaggi a tutto tondo, in uno spettacolo stupefacente che farà sognare le nuove generazioni e non solo.
Fedelissimi alla storia, la versione cinematografica di Kenneth Branagh rende omaggio agli indimenticabili elementi del classico d’animazione. I meravigliosi costumi e le scenografie opulente hanno aiutato a costruire la magica ambientazione del film, e l’onestà e la profondità infuse nei personaggi li hanno resi reali in un modo fantasioso, eppure credibile. Quando Cenerentola arriverà nelle sale, il 12 marzo, al pubblico sembrerà di vedere questa storia per la prima volta.
La firma delle meravigliose scenografie è del pluripremiato Dante Ferretti, che per il film si è ispirato principalmente all’architettura nordeuropea del XVI, XVII e XVIII secolo. I personaggi vivono in luoghi costruiti secoli prima del periodo e nel film Dante Ferretti riesce a catturare le atmosfere magiche della favola aggiungendo l'opulenza del periodo Barocco, crea un mondo che ben mescola il realismo storico al fantasy, con un’atmosfera che riesce ad essere credibile e fantastica. È un film che ti trasporta in un altro mondo, con enormi castelli, sale da ballo e maestose scalinate.


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martedì 28 aprile 2015

Cinquanta sfumature di grigio

Anastasia Steele è una studentessa in Letteratura inglese prossima alla laurea. Per sostituire un'amica influenzata va ad intervistare Christian Grey, giovane e ricco amministratore delegato della Grey Enterprises Holdings Inc. e se ne innamora, ricambiata, a prima vista. Christian mette però in breve tempo le cose in chiaro: la sua è una personalità dominante e il rapporto dovrà sottostare a precisi patti. Anastasia deve accettare di essere oggetto di atti di sadismo.
La trilogia di E.L.James (pseudonimo di Erika Leonard) è entrata di diritto in quella tipologia di romanzi che pochi dichiarano di aver letto (accampando, nel caso, i più svariati e 'doverosi' motivi). Ha però venduto più di 100 milioni di copie ed è stata tradotta in 52 lingue. Un successo editoriale di questo genere non poteva passare sotto silenzio e in materia si sono già spesi fiumi di parole. Era pertanto inevitabile che il cinema se ne accaparrasse i diritti contando sul fatto che i lettori desiderassero veder trasformati quei segni che chiamiamo scrittura in corpi in azione. Su questo piano sono destinati a rimanere delusi perché se c'è un elemento che manca in questo film è proprio la fisicità più o meno estrema, il sudore che sgorga dai pori di una pelle tormentata (dal piacere o dal dolore poco importa).
Un regista che di sadismo se ne intende, Lars Von Trier, aveva toccato ben altri livelli in Nymphomaniac - Volume 2. Qui invece si sta estremamente attenti alla 'confezione' tanto che non ci viene mostrato mai un organo sessuale (maschile o femminile che sia). Il cinema preesistente viene poi saccheggiato a piene mani e senza infingimenti: la scelta delle cravatte di Christian è una copia conforme della scena di American Gigolò così come non può mancare il ghiacciolo da 9 settimane e ½.
Se poi tanti anni fa era un Jean Louis Trintignant a percorrere distanze considerevoli per raggiungere Anouk Aimèe in Un uomo e una donna come potrà il miliardario Christian non colmare in tempi rapidissimi lo spazio che lo separa dall'amata per farle poi compiere un'esperienza con aliante? C'è però un elemento di cui la sceneggiatura di Kelly Marcel (Saving Mr.Banks) ha astutamente tenuto conto. Ogni volta che le richieste o le azioni di Christian (un Jamie Dorman dal corpo scolpito ma le cui sfumature espressive possono contenersi nelle dita di una mano) sfiorano il ridicolo è una Dakota Johnson, consapevole della difficoltà del ruolo, ad anticipare lo spettatore con una risatina imbarazzata sostituendosi a lui).
La colonna sonora di Danny Elfman fa il resto (con aggiunta di tanto di hit e con il 'sacrilegio' della presenza in sottofondo di "Im on fire" del Boss Springsteen). Il successo al box office è comunque facilmente prevedibile. Se una volta si accorreva in libreria prima e in sala poi per apprendere che "Amare significa non dover mai dire mi spiace" oggi "Amare significa dover subire le frustrate". I tempi cambiano. Cosa ci vogliamo fare?

Jupiter - Il destino dell'universo


Jupiter, figlia di immigrati russi, pulisce i bagni per vivere, sogna un domani migliore ma nel suo presente dorme in una stanza con i suoi parenti e non pensa di valere più del lavoro che fa. Un giorno, a sorpresa, in un salvataggio rocambolesco scopre di essere l'oggetto del desiderio di una famiglia di nobili alieni e viene così rapita da quello che diventerà il suo oggetto del desiderio, un mercenario mezzo uomo-mezzo cane. Dopo aver passato in rassegna i tre fratelli del nobile casato che si litiga la sua amicizia per interesse, come fossero fantasmi dickensiani, scoprirà di poter finalmente lottare per se stessa assieme al suo cavaliere.
C'è di nuovo la coltivazione e il consumo della razza umana al centro dell'immaginario dei fratelli Wachowski. Gli uomini sono una massa indistinta come piante in un campo, da predatori di risorse del pianeta (come la maggior parte della fantascienza li ha sempre immaginati, non ultimo il contemporaneo Interstellar) a risorse essi stessi, prede di altri coltivatori. In Jupiter - Il destino dell'universo non sono più le macchine di Matrix a bramare il possesso dell'umanità ma razze aliene più antiche, potenti, ricche e nobili, casati che da millenni si mantengono giovani grazie allo sfruttamento di razze come quella del pianeta Terra e ora, dopo la morte della madre padrona, sono in lotta per la successione.
I principali innovatori della fantascienza del nuovo millennio scelgono stavolta di fare un passo indietro. Dopo il grande affresco corale e storico di Cloud Atlas, mettono a fuoco una storia che ha tutte le caratteristiche del cinema di 30 anni fa. Una piccola pedina di un grande gioco è in grado di far crollare tutto il sistema, la più insospettabile e ordinaria delle carte, un'umana, si rivela il pezzo più pregiato in uno scacchiere che non conosce e di cui sa pochissimo. A ridare vitalità a questo tuffo nel recente passato del cinema c'è per fortuna l'epica avventurosa che i fratelli sanno infondere alle loro scene madri.
L'universo che i Wachowski mettono in piedi senza appoggiarsi a fumetti, libri o altri film antecendenti a questo ha il sapore dei grandi affreschi, pieno di dettagli, regole e ordini, cita apertamente Brazil, Dune e Ritorno al futuro II senza porsi troppi problemi, risolvendo ogni incongruenza grazie al proprio ritmo e un bieco ricorrere alle dinamiche più classiche di damigella in pericolo e cavaliere sempre pronto. In anni in cui anche la più conservatrice delle case di produzione (la Disney) racconta di eroine che si salvano da sole e relega gli uomini al ruolo, inedito per loro, di comprimario, i Wachowski pongono il loro Jupiter come la controriforma, il ritorno al classico.
Nella maniera in cui centrano bene non solo lo spirito avventuroso di un viaggio oltre il noto, attraverso lo spazio e all'interno di reami sconosciuti, ma anche l'esaltazione dello scontro (specie nel cielo delle metropoli terrestri) c'è il sapore del cinema migliore. Putroppo questo si avverte decisamente di meno quando si tratta di far interagire le loro pedine. Il cuore che dovrebbe battere al medesimo ritmo dei colpi subiti e inferti in realtà è molto meno sollecitato degli occhi. Mila Kunis è brava a rilasciare la tensione con uno sguardo, concentra benissimo l'emozione nei punti che servono e anche le battute più scontate riesce a consegnarle al suo partner come ottimi assist, dall'altra parte però Channing Tatum, perfetto, dinamico e coinvolgente nelle scene d'azione, non raccoglie come dovrebbe.

America Sniper

Chris Kyle, texano che cavalca tori e non manca un bersaglio, ha deciso di mettere il suo dono al servizio degli Stati Uniti, fiaccati dagli attentati alle sedi diplomatiche in Kenia e in Tanzania. Arruolatosi nel 1999 nelle forze speciali dei Navy Seal, Kyle ha stoffa e determinazione per riuscire e ottenere l'abilitazione. Perché come gli diceva suo padre da bambino lui è nato 'pastore di gregge', votato alla tutela dei più deboli contro i lupi famelici. Operativo dal 2003, parte per l'Iraq e diventa in sei anni, 1000 giorni e quattro turni una leggenda a colpi di fucile. Un colpo, un uomo. Centosessanta uomini abbattuti (e certificati) dopo, Chris Kyle torna a casa, dalla moglie, dai bambini e dai reduci, a cui adesso guarda le spalle dai fantasmi della guerra del Golfo. Una dedizione che gli sarà fatale.
Come il proiettile di un tiratore scelto, "il sentimento dell'assurdità potrebbe colpire un uomo in faccia ad ogni angolo di strada", diceva Albert Camus e argomenta Clint Eastwood in American Sniper, preciso capolinea della guerra in Iraq e di una filmografia che dagli anni Novanta ha provato a mettere ordine nell'ambiguo mare di sensazioni suscitate da quell'evento o a funzionare qualche volta da supporto narrativo alla costruzione di una legittimità anche finzionale per il governo americano. Impossibile allora leggere American Sniper senza considerare il cinema che lo ha anticipato, addestrato e maturato, quello di David O. Russell (Three Kings), di Werner Herzog (Apocalisse nel deserto), di Sam Mendes (Jarhead), di Paul Haggis (Nella Valle di Elah), di Brian De Palma (Redacted), di Kathryn Bigelow (The Hurt Locker).
Girati prima e dopo l'undici settembre, frattura storica, categoria dell'immaginario e spartiacque per la produzione cinematografica, ciascuno di loro ha provato a capovolgere la visone ufficiale di una guerra che ha bruciato vite e petrolio, gettando fumo nero sugli occhi dei (tele)spettatori. Diario visivo di un Navy Seal coinvolto nell'orrore che si ritrova ad abitare, American Sniper sale sui tetti col suo cecchino e trova il punto di osservazione migliore per dire l'idiozia della guerra con le sue assurde regole e i suoi deliranti perimetri di orrore. Ma Eastwood fa qualcosa di più che denunciare, si prende il rischio di raccontare quell'incoerenza attraverso un personaggio che in quella guerra credeva davvero, che nel suo mestiere, quello delle armi, confidava. Armato di fucile e bibbia, il Seal di Bradley Cooper inchioda i cattivi al destino che meritano, guardando le spalle ai marines che casa per casa cercano il male o il delirio paranoico. Ma Chris Kyle non è un militare accecato dal testosterone, Chris Kyle è un uomo che sa bene, come racconta al figlio, che fermare un cuore che batte è una cosa grossa.
Appesantito dal peso dei colpi che mette a tiro e dalle scelte che compie il suo personaggio dietro al mirino, Bradley Cooper infila la bolla allucinatoria che la guerra soffia sui soldati e aderisce alla genuina ingenuità di un soldato che sognava un mondo perfetto. E il sentimento di pietà che il ranger di Un mondo perfetto riservava all'uomo in fuga di Kevin Costner, Eastwood adesso lo chiede allo spettatore, sollevando Kyle dal giudizio e confermando di essere sempre in grado di cogliere il bilico tra ombra e luce. La semplicità ideologica di Kyle e la sua immediatezza comunicativa non sono prive di complessità. Kyle è un adulto pronto ad affrontare ogni prova con forza e coerenza, supportato dal sentimento e da una fede incrollabile. Diversamente dall'artificiere della Bigelow, che disarma là dove Kyle arma, lo sniper di Eastwood è in grado di ritrovare l'intima misura, il ritmo che lo lega al mondo e alla coscienza di esistere. Kyle non è certo immune al disorientamento progressivo che genera l'azione bellica e l'investitura di eroe, nondimeno è capace di ammettere le proprie responsabilità, davanti a dio e allo psichiatra, rimettendo il debito di adrenalina e riallineando le cicatrici. Ma è proprio a casa, nella sua amata patria e davanti a un marine che voleva richiamare da una non vita, che si compie la beffa e si realizza l'assurdità della guerra, ridotta da Clint a esercizio di idiozia, vedi i soldati-ingegneri sacrificati al cecchino iracheno sul muro di gomma. Se Chris Kyle, quello vero, non fosse morto assassinato da un reduce impazzito lo scorso febbraio, con ogni probabilità American Sniper lo avrebbe girato un altro regista, ricettivo alla manifestazione dell'eroismo americano. Perché è proprio quel tragico epilogo a emergere tutto il nonsenso, ad affrancarlo dal particolare e a convincere l'autore americano a farne una storia universale.
A Clint non piacciono le chiacchiere ed è pronto a rinunciarci pur di far capire le cose visivamente, penetrando il nucleo stesso del reale con l'aiuto della sensibilità. Contro l'effimero senza malinconia, Clint Eastwood mette in scena la parabola di un reduce, che come tutti i reduci, non è ancora morto ma sta morendo, ucciso dal fuoco amico, ucciso dal proprio Paese. Fantasma che vagola, che non vive ma sopravvive, Gran Torino di cui non ci si fa nulla se non lasciarla in garage, senza uno spazio in cui muoverla, senza un futuro in cui accenderla. Solo un presente in cui ogni tanto scoprirla e lucidarla, blaterando di patriottismo e trascurando le conseguenze che la sciagurata fase della politica internazionale degli Stati Uniti ha sul suo stesso tessuto sociale.
Sobrio, lucido, senza contratture, American Sniper, basato sull'autobiografia di Chris Kyle, squaderna un Paese che seguita a duellare con la morte in nome della 'vita', un Paese che congeda con tre spari e col Silenzio un altro soldato, scomparso fuori campo e nascosto in un posto "tra il nulla e l'addio".

Fast & Furious 7

A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Ragion per cui Deckard Shaw, fratello dell'Owen ridotto in fin di vita da Dominic Toretto e dalla sua gang, è pronto a scatenare la sua sete di vendetta, avvalendosi delle tecniche di guerra e di guerriglia apprese lavorando per i servizi segreti britannici. La situazione sembra disperata finché la CIA non si offre di aiutare Toretto e i suoi, a condizione che questi recuperino Ramsey, uno hacker straordinario e dall'identità ignota, rapito da dei pericolosi terroristi.
Un episodio, il settimo della serie inaugurata nel 2001 da Rob Cohen, che da subito ha assunto proporzioni gigantesche di significato, ben al di là della semplice prosecuzione di un franchise di successo. Dal momento della scomparsa di Paul Walker, senza dimenticare le circostanze paradossali in cui questa è avvenuta, realtà e finzione hanno cominciato a mescolarsi, delegando alla riuscita di Fast & Furious 7 un possibile esito virtuoso del cortocircuito. Il film sgombra il campo dagli equivoci ben presto, dimostrando, più che di essere influenzato dagli eventi extra-diegetici, di esserne dominato. La ridda di speculazioni sul film di James Wan - diversi horror al suo attivo come Saw - L'enigmista o L'evocazione - The Conjuring - non ha chiarito quanto Brian, ossia il personaggio di Walker, sia stato ricostruito grazie alla computer graphics, né quante delle scene siano frutto dell'effettiva interpretazione di Walker e quante abbiano fatto ricorso ai fratelli dell'attore scomparso. Ma quel che è certo è che lo script e il concetto stesso dell'opera sono stati riscritti e ripensati dopo l'evento, trasformando Fast & Furious 7 in un lungo addio all'amico, senza neanche porsi il problema di giustificare il tutto sul piano diegetico: è chiaramente insufficiente, infatti, il pretesto narrativo del ritorno in famiglia di Brian per giustificare l'atmosfera elegiaca del film, così come appare studiata la volontà di avvicinare all'attesa morte (che allinei realtà e finzione) il personaggio per poi salvarlo nelle maniere più rocambolesche. Vince, anzi stravince, l'elemento extra-diegetico e il fatto rappresenta una novità sostanziale in chiave di completo superamento del postmoderno nel cinema action: il reale irrompe inarrestabile e scardina le regole della finzione.
Solo Blues Brothers 2000 aveva accettato l'elaborazione del lutto sul piano diegetico, ma per tracciare una linea e proseguire in un'altra direzione. Wan invece lavora sul fantasma di Walker cercando di invertire il corso naturale delle cose: e se la resa infine è inevitabile (per ora, visto che Fast & Furious 7 apre a scenari nuovi anche sul potere di resurrezione del digitale) di certo non è silenziosa. Tra granate in ogni dove, bolidi che escono da un grattacielo per entrare in quello accanto e auto paracadutate su una strada nel Caucaso, Fast & Furious 7 esagera su ogni fronte; è insieme il più bromance e il più voyeur sulle grazie femminili, il più spettacolare e il più corale. Anche grazie a un cast micidiale, che trova in Statham l'unico villain capace di competere credibilmente con colossi come Vin Diesel o The Rock e in Kurt Russell il depositario dell'action movie che fu, pronto a benedire gli eccessi dell'era digitale. Ma giudicare Fast & Furious 7 come un "normale" action movie, con i suoi pregi - la sequenza a Dubai - e i suoi molti e notevoli difetti - di sceneggiatura, coesione tra le parti, prolissità - significherebbe ignorare le ragioni della sua specificità, tali da renderlo, ad oggi, inequivocabilmente unico.

Adeline - L'eterna giovinezza

Adaline Bowman, nata nel 1908, all'età di 29 anni è vittima di un incidente d'auto che, paradossalmente, la rende immortale. Da quel momento smette di invecchiare e vede passarle la vita accanto: la figlia la supera in età diventando un'anziana signora, e Adaline impara a non innamorarsi per non dover assistere allo stesso disallineamento spaziotemporale. Così passa i decenni a cambiare casa e vita, ogni volta che qualcuno comincia ad accorgersi che ha sempre lo stesso aspetto fisico. Ma quando incontra Ellis, un trentenne con cui è amore a prima vista, la determinazione di Adaline comincia a vacillare. E la donna non sa ancora che l'attrazione per Ellis ha radici lontane.
Il giovane regista americano Lee Toland Krieger si cimenta con una storia che ricorda Il curioso caso di Benjamin Button, ma anche Highlander e per certi versi l'horror svedese Lasciami entrare (assai più che le numerose saghe pop sull'immortalità dei vampiri tanto presenti in questi anni) perché riflette sul senso della vita attraverso il concetto di mortalità e mostra il passare del tempo (e l'invecchiamento del corpo) come un limite necessario alla ripetitività infinita dell'esistenza.
Proprio perché il protagonista è il tempo, Adaline e il mondo che la circonda appaiono atemporali anche a livello di scenografie, costumi, accompagnamento musicale. Adaline si muove in un eterno presente che ha come costante la perdita delle persone care, ed è dunque eternamente ferma in una sorta di freeze frame. Blake Lively, con la sua presenza algida e impassibile, sostiene inquadratura dopo inquadratura il ruolo di donna costretta a rendersi impermeabile agli affetti e agli attaccamenti anche logistici, e desiderosa di acquisire quel primo capello bianco che, nella realtà cronologicamente corretta, è lo spauracchio di molte (e molti).
La regia è classica, da grande storia romantica, e la svolta narrativa che compare a due terzi del racconto aumenta il pathos melodrammatico che permea l'intera vicenda. Mancano la capacità visionaria di David Fincher e la profondità emotiva di Thomas Alfredson, ma Adaline - L'eterna giovinezza è un buon prodotto di entertainment che sostiene la curiosità e l'attenzione del pubblico.

L'ultimo Lupo

Chen Zhen, giovane studente nella Cina della 'rivoluzione culturale',
 è trasferito in Mongolia da Pechino per educare una comunità di
 pastori nomadi. In quella terra, piena di una bellezza selvaggia e
 vertiginosa, è tuttavia Chen Zhen ad apprendere qualcosa sugli uomini
e sui lupi, che il governo comunista ha deciso di sterminare. Colpevoli
 di 'frenare' l'avanzata del progresso della Cina di Mao, i lupi vengono
abbattuti da cuccioli o dentro safari crudeli, che alterano l'equilibrio
uomo-natura che le tribù mongole avevano conquistato nei secoli.
 Affascinato dai lupi, Chen ne alleva uno di nascosto, compromettendo a
suo modo l'ordine naturale delle cose.
Il cinema di Jean-Jacques Annaud ha da sempre due anime:
 qualche volta si 'diverte' a precipitare i suoi protagonisti dentro
una cultura esotica (Bianco e nero a colori, Sette anni in Tibet) e
 qualche altra a elevare gli animali a protagonisti (L'orso, Due fratelli). Contrariamente al titolo
 e alle apparenze, L'ultimo lupo appartiene alla prima categoria. Blockbuster à l'ancienne e
 adattamento del romanzo di Lü Jiamin ("Il totem del lupo"), L'ultimo lupo è una storia cinese,
raccontata da un francese, sul tramonto del nomadismo mongolo. 'Raccomandato' dalla sua amante,
 film censurato in Cina ma il più visto illegalmente in Cina, Annaud è stato ingaggiato dalla China
 Film Group Corporation per girare in Mongolia un bestseller locale sulla civiltà nomade degli
allevatori mongoli e la colonizzazione comunista. Favola spettacolare, dentro un cinema classico e
 popolare, L'ultimo lupo racconta l'avventura di due allievi-precettori che lasciano Pechino per
 alfabetizzare le comunità della Mongolia Interna e finiscono invece alfabetizzati. Sedotti da
quell'idillio pastorale e da un'arcaicità serena, in cui uomini e animali convivono in armonia,
bevono come il latte delle giumente le parole del capo del villaggio, che insegna loro i rudimenti di
 un equilibrio ecologico fondato su una cosmogonia animista. Il regista francese svolge questa
educazione concentrandosi sullo sguardo di Chen Zhen, portatore critico della rivoluzione culturale
 di Mao.
Nella magnificenza dei paesaggi e sotto lo sguardo delle creature selvagge della steppa, il film
cerca e trova il battito barbaro del cuore di Chen Zhen, sorpreso di frequente in primo piano e davanti
 all'orizzonte come in una vecchia cartolina della propaganda comunista. Cronaca della fine di un
mondo e di un modo di vivere, L'ultimo lupo esalta col 3D l'animale del titolo, divinità tutelare e
 predatore antico. Venerato e temuto dai nomadi mon goli, il lupo condivide la scena con
 Chen Zhen e la riempie con tutta la sua dignità. Se il vento freddo e pungente della steppa
 increspa la sua pelliccia e lo coglie in piena corsa, la terza dimensione trova la sua ragione
nei piani fissi, che ne afferrano la consumata immobilità e la maestosa monumentalità.
Misurando la loro perfetta fotogenia, la regia di Annaud elude esotismo e antropomorfismo
, privilegiando un modello di messa in scena in rilievo che rende addirittura palpabile la presenza
 del lupo, vicino eppure sfuggente. Pioniere di questa tecnologia, nel 1995 aveva girato in Imax
 3D Wings of courage, l'autore rileva, dentro un paesaggio irriducibile e sotto il pretesto di studiare
 i predatori di Chen Zhen, la speranza chimerica di una conciliazione tra onnivori e carnivori, tra un
 uomo di buona volontà e un animale selvaggio, tra una cultura nomade e una sedentaria, che muore
 di fame e sogna una terra intorno al lago in cui coltivare i suoi cereali. Dentro il recinto, eretto da
Zhen per crescere il suo cucciolo, però qualcosa si perde, una perdita ineluttabile, forse necessaria
 ma irreparabile. Fuori intanto urlano i lupi, lupi senza pelliccia che rompono un equilibrio ancestrale
 sparando agli animale e soffocando la volontà di libertà degli uomini.