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domenica 21 agosto 2016

Alice Attraverso lo specchio



Nulla è impossibile. Magari solo "non possibile", suggerisce sfuggevole e prossimo come Muppets James Bobin, sfodera un poderoso armamentario di metafore e complessi psicanalitici per raccontare la normalità di Alice e il suo conflitto interiore rispetto all’assurda convenzionalità del mondo che la circonda.
sempre alla sparizione lo Stregatto ad una Alice nuovamente confusa e sfiduciata di fronte alla follia organizzata della realtà. Attingendo molto liberamente al romanzo di Lewis Carrol “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”, proseguo o piuttosto espansione della prima ben più celebre opera di Carroll, la mega produzione targata Walt Disney e Tim Burton, diretta dall’ultimo papà dei 
Mia Wasikowska deve aver ricominciato a dormire. Le occhiaie si sono attenuate perché sulle navi si deve stare ben svegli ma soprattutto perché il suo personaggio sente di cominciare a trovare, nella lucida visionarietà che necessità quella particolare occupazione che sembra tagliata su misura per lei (sebbene non propriamente ortodossa secondo i canoni dell’‘800 per una fanciulla), quel po’ di senso di cui la sua vita ha bisogno per resistere all’alienazione del quotidiano.
Chiusa nel doppiopetto d’ordinanza, Alice raccoglie l’eredità paterna in termini di spirito pionieristico e capacità di comando. Non sta più sognando mentre cavalca coraggiosamente, nella scena d’apertura del film, gigantesche onde in tempesta. Lei è lo stimato comandante della nave paterna, la “Wonder”, e della flotta della compagnia degli Ascot. Ma con la morte di Lord Ascot, l’amministrazione della compagnia passa nelle mani dell’ex pretendente della ragazza, il roscio, nasuto, insopportabile Hamish.
Durante la sua assenza la madre è stata costretta, a causa dei debiti, a firmare la cessione della nave o della casa. Alice deve tornare con i piedi per terra. È sconveniente per una donna vivere in mare, viaggiare per il mondo, comandare gli uomini. Meglio un discreto posto negli archivi con pensione assicurata: la giusta, bruciante condanna a una prigione dorata di tristezza e immobilità per aver osato non amare il figlio del capo.
Alice ripiomba nel peggiore dei suoi incubi (che se fosse vero sarebbe di certo sempre meglio della realtà) e si lancia nella ormai classica fuga. Non nei meandri di un giardino fiorito, ma nell’asfissiante dedalo di corridoi e stanze dall’arredamento borghese ipertrofico del palazzo degli Ascot. Con indosso l’armatura sgargiante dell’abito da vedova dell’imperatrice cinese, per sfuggire al destino, per cercare una soluzione che sembra impossibile da trovare, la giovane donna si rifugia ancora una volta nel mondo parallelo della sua fantasia.
C’è un’arma imbattibile che sembra andare di moda tra le svitate del cinema dei nostri giorni. Che te la insegni un gatto che vola o un cappellaio tutto matto, gli abitanti fuori di testa socialmente riconosciuti di una comunità terapeutica o le ferite della vita, come nell’ultimo film di Virzì, è l’ironia che ci salverà.
Alice e una delle protagoniste de La pazza gioia rispondono a tono, ribaltando il gioco delle parti, a chi prova a tacciarle di pazzia, mentre montano in groppa a un cavallo o a un’automobile d’epoca: “secondo le perizie psichiatriche sembrerebbe di sì!”. Non prima di aver però almeno tentato di affrontare alcuni nodi fondamentali dell’esistenza: il rapporto con la figura paterna e materna, la paura di non essere adeguati, il rischio del rapporto con l’altro. Nel caso di Alice, non prima di aver assestato, anche grazie alla ritrovata solidarietà della madre, il giusto colpo a una società che ha fatto nei secoli di una presunta isteria femminile l’alibi per la sottomissione della donna.
Al di là del luna park ormai ingestibile di sfoggio di effetti speciali e di incastri dei momenti cinematografici fantasy più riusciti degli ultimi anni - dalla sororanza conflittuale alla Frozenalla corsa alla salvezza dei mondi di certi block buster, al ribaltamento delle dimensioni spazio-temporali alla Interstellar - il film ritrova a suo modo il bandolo della matassa sul finale, riconducendo la moltitudine di personaggi straordinari della fantasia di Carroll verso una riconciliazione finale e un consolatorio discorso sul tempo. Da personaggio bislacco e saccente - Sacha Baron Cohen ricalca il petroliere di Daniel Day-Lewis - crudele e un po’ ottuso nemico che ruba la vita, il Tempo diventa compagno di viaggio che restituisce - in termini di esperienza, ricordi, coraggio nell’affrontare a testa alta il futuro - ciò che ineluttabilmente porta via.

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